|  Perché 
          racconti storie? L’ho sempre fatto. Appena mi è venuta voglia di mettermi 
          sulla scena, è stato per raccontare una storia.
 Prima ne avevo raccontate tante, in famiglia, a scuola, agli amici. 
          E prima ancora amavo sentirmele raccontare.
 Quelle di mia nonna cominciavano quasi sempre così: A jeru 
          tre sureli che i son andaci ntal camp a catà l barlandi. 
          C'erano tre sorelle che sono andate nel campo a raccogliere cavoli, 
          era quasi sera e ne era rimasto uno, il più grosso, ma così 
          grande, ma così stretto alle radici… che tira, tira …non 
          veniva su.
 La prima dice: "Basta, ho la schiena rotta, questo lo lascio qui, 
          ne abbiamo raccolti così tanti che nostro padre non se ne accorgerà". 
          E va via. La seconda ci prova ancora un po' poi dice: "Basta. Che 
          fa buio e poi ci tocca tornare di notte". E anche lei torna a casa.
 Ma la terza, la più piccola resta e continua a tirare, tirare....incurante 
          della fatica e del buio. Sta quasi per piangere, quando il cavolo vien 
          via dalla terra e al suo posto ecco un gran buco e nel buco una scala 
          che scende, che scende, e là in fondo un chiarore meraviglioso...
 Poi la piccolina scendeva la scala e ogni volta a questo punto la storia 
          cambiava, cambiavano le peripezie, le meraviglie, i mostri, i principi 
          o i tesori che trovava là in fondo...finiva che erano felici 
          e contenti, larga è la foglia, stretta è la via, dite 
          la vostra che ho detto la mia.
 E io la mia la dicevo, tutto il giorno, tutti i giorni d'inverno di 
          bambina senza cortile, in città: la dicevo a me stessa, nel soliloquio 
          del pomeriggio quando mia madre e mia nonna andavano a dormire e non 
          bisognava giocare per non disturbare. Sola, sulla panchetta contro il 
          vetro della porta che dava sul balcone, potevo disegnare le illustrazioni 
          sul vetro appannato e mormorare la storia. Capivo che le storie governavano 
          il Tempo, lo rendevano docile, ed erano Signore anche dello Spazio: 
          non ero più in città, sola, al terzo piano nel centro 
          di Torino, ma di nuovo in campagna, come in primavera, come d'estate, 
          come d'autunno, in mezzo agli animali, con gli amici reali e quelli 
          immaginati.
 Al mercato piantavo le peste solo al banco dei libri e appena imparai 
          a leggere pretesi un libro con copertina spessa e senza figura. Erano 
          fiabe siciliane e mi ricordo ancora quello del principe cui vengono 
          tolte moglie e figlioletta e non fa che ripetere "Aranciu e Lumia, 
          Lumia e Aranciu, se nun vi vegghiu nun manciu e nun dormu chiu." 
          Capii che Lumia era "limone". Mi sembrava di sapere le lingue 
          straniere.
 Quando veniva Ida Corsini invece le giocavamo le storie. Io facevo il 
          principe. lei la principessa, ma mi dava sui nervi perché appena 
          si faceva interessante e io stavo per compiere qualche atto eroico o 
          affondare le mani in qualche avventura lei sveniva. Cioè la principessa 
          sveniva e mi toccava darle i sali (ma nella vita chi ha mai visto i 
          sali?).
 Pronunciavamo un sacco di parole come "disse" "fanciulla" 
          "destriero" "impallidì" "scorgere" 
          "sdegnarsi" "smarrirsi" e parole così.
 Queste parole fanno una buona storia. Intuii l'importanza del linguaggi.
 Raccontare, recitare con gli altri attori in compagnia, cosa 
          preferisci?
 Recitare con i bravissimi attori che in questi anni hanno lavorato con 
          me. Mariella Fabbris, Lucilla Giagnoni, Mirco Artuso, Michele di Mauro, 
          Marco Paolini, e tanti altri…La gioia di un lavoro d’insieme 
          ben orchestrato è impagabile.
 Raccontare, però, è una scelta obbligata e meravigliosa 
          quando la storia mi appartiene così profondamente che non aspetta 
          i tempi della progettazione teatrale di compagnia, non c’è 
          tempo per scrivere per altri, convincerli, provare, …certe storie 
          te le devi scrivere e raccontare tu, subito! E raccontando si impara 
          anche a migliorare nel lavoro collettivo.
 In “Passaggi di stato”, il laboratorio appena concluso, 
          come avete lavorato?
 In tre riprese, tre fine settimana a distanza di un mese. L’ argomento 
          era il passaggio da una età all’altra: dall’infanzia 
          all’adolescenza e dall’adolescenza alla maturità. 
          Gli allievi hanno prima improvvisato, poi scritto, e infine recitato 
          i loro racconti. Per tenere sempre alto il livello abbiamo – in 
          contemporanea – fatto esercizio di lettura ad alta voce e di recitazione 
          di brani di autori italiani e stranieri sullo stesso argomento.
 Risultati?
 Un affiatamento esemplare fra gli allievi, una grande originalità 
          degli spunti, tutti provenienti da racconti autobiografici, una …cronica 
          carenza di tempo per svilupparli tutti! Siamo molto soddisfatti della 
          qualità di comunicazione che si è stabilita.
 Se i singoli racconti possono, naturalmente, essere adesso sviluppati 
          e migliorati, mi pare che tutti abbiano capito i fondamenti della relazione 
          fra narratore e ascoltatore, che è la cosa più difficile 
          da far passare.
 E’ come se ci fossimo creati un raggio di prospettive di lavoro, 
          che poi tutti possono perfezionare con me o frequentando altri maestri.
 Qualcuno sostiene che il teatro è ormai alla fine, schiacciato 
          da altri linguaggi. E’ vero?
 Fine? Ogni volta che sento annunciare la morte di qualcosa in questi 
          termini provo solo fastidio, se non rabbia.
 Gli annunciatori di morte farebbero bene a guardarsi attorno un po' 
          di più. A frequentare altre case. C'è qualcosa che muore 
          e altro che nasce, che cresce.
 Il teatro ci permette di stare, pubblico e artisti, insieme nello stesso 
          posto, nello stesso momento, a pensare, ad ascoltare (che miracolo, 
          ascoltare invece di giocare a chi urla più forte!). Ci permette 
          di sperimentare una comunicazione immediata, forte di un contatto fisico 
          ravvicinato tra artista e pubblico.
 Questo non significa che non ci sia da fare, ...e molto, proprio perché 
          il teatro non muoia, perché rinasca e cresca: cavar via dalla 
          pura virtualità la consistenza di certa normativa, sostenere 
          le buone scuole di teatro, formare il pubblico attraverso la diffusione 
          della pratica teatrale nel sociale, come fate voi di Ossidiana, favorire 
          la formazione anche di chi già è attore di professione 
          e vuole specializzarsi, e di nuovo qui da voi accade, provare nuove 
          strade, favorire la crescita di figure organizzative ed amministrative 
          per il teatro, sostenere i luoghi teatrali ed i teatri, attrezzare questi 
          anziché creare lo spreco di centinaia di compagini che girano 
          con l'attrezzatura tecnica al seguito.
 Forse non tutti lo sanno, ma mentre in giro per il mondo ogni teatro 
          ha fari, impianti, tecnici, ecc… e li mette a disposizione delle 
          compagnie, in Italia la maggior parte dei teatri è una scatola 
          vuota e sulle autostrade girano grossi Tir pieni di…di quello 
          che ci dovrebbe essere nei teatri, fari, cavi, mixer, dimmer,… 
          Sono i camion delle compagnie che ogni volta, come fossero un circo 
          o una giostra, devono montare e smontare non solo le proprie scene, 
          ma anche…tutta la dotazione tecnica!
 Così anche noi attori possiamo forse fregiarci del titolo di 
          Viaggiatori della Luna, titolo che spetta appunto ai circhi e ai giostrai…
 A cura di Gianni Gastaldon
 
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