L'intervista a
Marco Cavalli
Lettore professionista con il gusto di trasmettere il piacere disinteressato della lettura
a cura di Gianni Gastaldon

Leggere è un’arte, la si può apprendere e perfezionare, ma soprattutto la si può praticare per il puro piacere disinteressato di farlo. Un piacere antico e duraturo, come ci dice Marco Cavalli critico letterario, traduttore e consulente editoriale, che, attualmente, sta tenendo a Ossidiana corsi sulla lettura intitolati “Beato chi legge”.
La gente legge sempre di meno, l’editoria è in crisi permanente, la qualità dei libri si deteriora... Non è un contesto sfavorevole per promuovere un corso su come si legge un romanzo?
La verità è che la lettura di un romanzo è ormai un genere di attività più adatta a una civiltà rurale che a una civiltà industriale fortemente tecnologizzata. In base alla mia esperienza, la lettura comporta una sciente rassegnazione a tempi lunghi, allenamento della memoria, doti anche fisiche di resistenza, adattamento a un ritmo interno che non è il nostro, capacità di attendere che questo ritmo si assesti in noi, capacità di conservarlo intatto pur nella necessità di doverlo frazionare. Senza contare la gioia estetica di fare qualcosa di disinteressato, che non necessita né di alibi né di pretesti. Tutte abilità in contrasto con l’andamento della nostra cultura. Il mio compito consiste nel dare al lettore moderno l’opportunità di impadronirsi di questi requisiti, senza i quali è fisiologicamente impossibile poter leggere un’opera letteraria d’autore.
Tu sei critico letterario, traduttore e consulente editoriale. Come fai a conciliare le tue molte responsabilità di lavoro con la passione per la lettura?
Una grandissima parte del mio tempo la passo a escogitare espedienti che mi permettano di trasformare gli impegni di lavoro in altrettanti pretesti per leggere questo o quel libro che mi interessa. Per riuscire a leggere un romanzo che altrimenti sarebbe rimasto a far polvere sullo scaffale, sono arrivato perfino a impormi l’obbligo di tradurlo, il che è tutto dire. Spesso faccio in modo di poter intervistare uno scrittore solo per avere l’occasione di leggere i suoi libri senza sentirmi in colpa. Io non so mai cosa chiedere a uno scrittore, ma non potrei chiedere i suoi libri in libreria se non mettessi d’accordo la mia voglia di leggere con la non meno imperiosa volontà di sopravvivere.

 

I giornali ai quali collaboro non mi lasciano parlare del libro se prima non parlo dello scrittore, e allora io, aggiustandomi addosso questa formula come un lenzuolo troppo corto, trovo il sistema di soddisfare me senza scontentare loro. Ma tutto questo non è niente a paragone della fatica che mi costa fare il mio mestiere come se si trattasse di un mestiere che non ha niente a che vedere con la lettura. Non è un paradosso: chi, come me, ha intrapreso la carriera di lettore professionista, deve guardarsi da una minaccia insidiosa, quella di finire con l’amare la lettura soprattutto perché, alla lunga, gli fa sbarcare il lunario e gli procura un qualche credito negli ambienti editoriali che contano.
Qual è il tuo metodo di insegnamento?
Per cominciare, io non insegno. Non mi riconosco nel significato tradizionale e edificante che si dà alla parola “insegnamento”. Il mio corso si propone, fra le altre cose, di smantellare i meccanismi mentali e i condizionamenti psicologici che ogni italiano scolarizzato fa scattare automaticamente quando si ritrova fra le mani un libro. Se davvero vuole tentare di fare un’esperienza di lettura disinteressata, un partecipante al mio corso deve riconoscere i suoi limiti, per quanto generoso sia il concetto che si è fatto di sé come lettore. Tutti gli italiani sono pessimi lettori, se non altro perché nessuno di loro ha mai goduto della libertà di non leggere. Costretto a leggere anche quando non vuole, soprattutto quando non vuole, l’italiano si rifà considerando la lettura un’esperienza sapienziale, intellettualistica, legata allo sviluppo dell’intelligenza, non all’affinamento del gusto. Al contrario dei demagoghi più o meno organici allo Stato, trovo normale la generale disaffezione della gente per la letteratura d’autore: nemmeno io riuscirei ad accostarmi a un romanzo se ogni volta dovessi chiedermi perché lo faccio. Non ci sono perché. I veri motivi per cui si legge, ammesso che esistano, vengono sempre a ruota della lettura. Se la precedono, non sono che scuse per ottenere dalla lettura qualcosa di diverso da quanto la lettura propone.


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