Aeroporto
Marco Polo, Venezia. Ore 7,30. Sul volo per New York delle 9,15 ripartirà
Jonathan Hart Makwaia che ha appena terminato il corso di Vocalità
a Ossidiana, nell’ambito della quinta edizione di “Al di
là del mare” workshop per il teatro.
Formatosi
a Londra in pianoforte classico e composizione, cresciuto all’interno
della ricerca e dell’esperienza del “Roy Hart Theatre”,
musicista, compositore, attore, cantante, docente di vocalità
alla New York University. C’è un filo che collega la tua
attività artistica e quella di docente?
Mi piace insegnare e fare spettacoli, unire le due attività:
una dà all’altra.
All’inizio di un corso, invece di imporre un’estetica, parto
da come è la voce di ognuno e trovo che è così
infinita, che ci sono tanti suoni in ogni voce: ed è una sfida
il come trovare una direzione dentro la persona stessa. Allora per me
il lavoro ritorna sempre all’equilibrio fra seguire quello che
c’è nella voce e trovare la forma. Questo è un grande
principio sia nell’ambito creativo che nell’insegnamento.
Da una parte un allievo può trovare dei suoni che hanno un senso
piuttosto forte a livello personale, e poi chiedersi quale forma, quale
mezzo può chiarire il senso di questo suono e, se vuole andare
verso lo spettacolo, quale è per lui la forma giusta per questo
suono; dall’altra parte si può partire da una forma che
esiste già, come la canzone, e trovare più spazio per
l’individualità nella forma che c’è già.
Questo scambio, questo andare nei due sensi è interessante.
Anche per il tuo lavoro di artista?
Sento che ci sono forme nuove da trovare, da inventare, e che i suoni
della voce sono un buon mezzo per arrivarci. Negli USA c’è
la Performance Art, tipo di spettacolo dove spesso uno da solo può
combinare varie discipline. Ho notato come la voce può attraversare
vari stili diversi, è molto adatta per la Performance Art: parlato,
cantato, ambiente, personaggi, o creare uno sfondo sonoro per altre
immagini….. sono forme nuove da inventare. Capire meglio la voce
con questo scambio tra forma e suoni, e fare sperimentare questo scambio
anche alle altre persone per me è molto utile, mi aiuta anche
per la mia attività artistica.
Come procedi allora nei tuoi corsi?
All’inizio di un corso con la voce mi piace proprio non imporre
una direzione. In un certo modo è più difficile perché
la gente non ha un modello iniziale e non capisce; poi intuitivamente
ognuno sente che c’è una logica e seguendola arriviamo
ad una direzione di lavoro che può essere diversa per ciascuno:
più ricco così che decidere a priori cosa tutti devono
fare. Successivamente, essendo la musica ciò che mi attira maggiormente,
faccio un lavoro con la musica per tutti. Di solito le persone percepiscono
i legami tra ciò che scoprono nel lavoro più aperto, senza
direzione, ed il lavoro del canto, dentro la musica. Una forma che esiste
già, come la canzone, può quindi aiutare ad approfondire
la direzione personale.
Per me la voce è un mezzo ideale per integrare mondi diversi,
come l’arte e la terapia, il suono ed il movimento (perché
c’è tanto movimento anche nella voce), l’interno
e l’esterno: si possono capire cose di sé scavando dentro,
ma anche la voce che esce può rivelare e comunicare. E’
un vero peccato che spesso la terapia sia separata da tutto il resto.
La voce necessariamente include la terapia, poi è una scelta
se va ad includere l’arte. Più si capisce che senso ha
la propria voce per sé e più si ha capacità di
fare arte più profonda, si ha più materiale da comunicare.
La voce include l’arte e la terapia, ma non è l’arte
e non è la terapia: è al di là delle due cose.
E cosa è la voce per te?
E’ importante che ognuno debba riconoscere la strada che vuole
prendere con la voce. Per me, attraverso lo spettacolo, la musica, è
un modo di comunicare. Credo che la varietà di suoni vocali evochi,
risuoni in tutte le persone quando ascoltano, sentono….Con la
mia musica voglio evocare, fare risuonare in altre persone qualcosa.
Il fatto di integrare vari mondi come suoni di ambienti diversi, o un
suono non famigliare in uno stile di musica particolare, fa risuonare
qualcosa della vita, della realtà di ognuno, cose molto difficili
da esprimere con le parole. Ma ci sono momenti nella musica in cui si
sente che il pubblico capisce. La voce è un buon mezzo per trattare
questo sentire, senza tante parole: è la mia sfida con voce e
musica.
E con i tuoi studenti?
Di solito, in ogni corso, vedo che ognuno scopre almeno un aspetto che
capisce davvero, e questo cambia qualcosa nella sua vita. Può
essere a livello molto sottile, ma è grandissimo, può
essere semplice come scoprire un suono nella propria voce e, attraverso
questo suono, scoprire e vivere una parte di sé poco conosciuta
e che poi entrerà a far parte della vita quotidiana. A livello
personale nel suo modo di comunicare con gli altri, a livello artistico
nelle ripercussioni sul suo lavoro di artista. Un professionista può
cogliere nuove possibilità nella propria voce e attuare un cambiamento,
trovare maggiore libertà nelle sue canzoni, nella sua recitazione,
come se ci fosse un mondo attorno a sé e non si trovasse su una
strada unica e chiusa, ma aperta a ciò che la circonda: la strada
non cambia, ma è aperta e ci si può guardare attorno.
Il pubblico sente questo. La presenza dell’attore ti prende, ti
cattura, perché non sta solo nella cosa precisa che si fa, ma
include tutto ciò che sta attorno.
Gli allievi ne sono consapevoli?
E’ importante che ciascuno possa sentire se stesso, l’effetto
del proprio suono. E’ un lavoro di continuo passaggio dal dentro
al fuori e viceversa. E’ necessario lavorare per sentire il ritorno.
Per chi ascolta troppo fuori e non ha un centro è importante
provare ad ascoltare il proprio suono fuori cercando di sentirne il
ritorno. Anche senza essere sicuri di ciò che ritorna: cercare
per trovare cosa può tornare.
Quali i tuoi progetti futuri?
Voglio dedicarmi di più allo spettacolo: concerti, teatro, musica-teatro;
e composizioni, non solo per me, ma anche per altri artisti, per coreografie
o per film come mi è già capitato.
Gianni Gastaldon
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