Leggere
è un’arte, la si può apprendere e perfezionare,
ma soprattutto la si può praticare per il puro piacere disinteressato
di farlo. Un piacere antico e duraturo, come ci dice Marco Cavalli critico
letterario, traduttore e consulente editoriale, che, attualmente, sta
tenendo a Ossidiana corsi sulla lettura intitolati “Beato chi
legge”.
La gente
legge sempre di meno, l’editoria è in crisi permanente,
la qualità dei libri si deteriora... Non è un contesto
sfavorevole per promuovere un corso su come si legge un romanzo?
La verità è che la lettura di un romanzo è ormai
un genere di attività più adatta a una civiltà
rurale che a una civiltà industriale fortemente tecnologizzata.
In base alla mia esperienza, la lettura comporta una sciente rassegnazione
a tempi lunghi, allenamento della memoria, doti anche fisiche di resistenza,
adattamento a un ritmo interno che non è il nostro, capacità
di attendere che questo ritmo si assesti in noi, capacità di
conservarlo intatto pur nella necessità di doverlo frazionare.
Senza contare la gioia estetica di fare qualcosa di disinteressato,
che non necessita né di alibi né di pretesti. Tutte abilità
in contrasto con l’andamento della nostra cultura. Il mio compito
consiste nel dare al lettore moderno l’opportunità di impadronirsi
di questi requisiti, senza i quali è fisiologicamente impossibile
poter leggere un’opera letteraria d’autore.
Tu sei critico letterario, traduttore e consulente editoriale.
Come fai a conciliare le tue molte responsabilità di lavoro con
la passione per la lettura?
Una grandissima parte del mio tempo la passo a escogitare espedienti
che mi permettano di trasformare gli impegni di lavoro in altrettanti
pretesti per leggere questo o quel libro che mi interessa. Per riuscire
a leggere un romanzo che altrimenti sarebbe rimasto a far polvere sullo
scaffale, sono arrivato perfino a impormi l’obbligo di tradurlo,
il che è tutto dire. Spesso faccio in modo di poter intervistare
uno scrittore solo per avere l’occasione di leggere i suoi libri
senza sentirmi in colpa. Io non so mai cosa chiedere a uno scrittore,
ma non potrei chiedere i suoi libri in libreria se non mettessi d’accordo
la mia voglia di leggere con la non meno imperiosa volontà di
sopravvivere. I giornali ai quali collaboro non mi lasciano parlare
del libro se prima non parlo dello scrittore, e allora io, aggiustandomi
addosso questa formula come un lenzuolo troppo corto, trovo il sistema
di soddisfare me senza scontentare loro. Ma tutto questo non è
niente a paragone della fatica che mi costa fare il mio mestiere come
se si trattasse di un mestiere che non ha niente a che vedere con la
lettura. Non è un paradosso: chi, come me, ha intrapreso la carriera
di lettore professionista, deve guardarsi da una minaccia insidiosa,
quella di finire con l’amare la lettura soprattutto perché,
alla lunga, gli fa sbarcare il lunario e gli procura un qualche credito
negli ambienti editoriali che contano.
Qual è il tuo metodo di insegnamento?
Per cominciare, io non insegno. Non mi riconosco nel significato tradizionale
e edificante che si dà alla parola “insegnamento”.
Il mio corso si propone, fra le altre cose, di smantellare i meccanismi
mentali e i condizionamenti psicologici che ogni italiano scolarizzato
fa scattare automaticamente quando si ritrova fra le mani un libro.
Se davvero vuole tentare di fare un’esperienza di lettura disinteressata,
un partecipante al mio corso deve riconoscere i suoi limiti, per quanto
generoso sia il concetto che si è fatto di sé come lettore.
Tutti gli italiani sono pessimi lettori, se non altro perché
nessuno di loro ha mai goduto della libertà di non leggere.
Costretto a leggere anche quando non vuole, soprattutto quando non vuole,
l’italiano si rifà considerando la lettura un’esperienza
sapienziale, intellettualistica, legata allo sviluppo dell’intelligenza,
non all’affinamento del gusto. Al contrario dei demagoghi più
o meno organici allo Stato, trovo normale la generale disaffezione della
gente per la letteratura d’autore: nemmeno io riuscirei ad accostarmi
a un romanzo se ogni volta dovessi chiedermi perché lo faccio.
Non ci sono perché. I veri motivi per cui si legge, ammesso che
esistano, vengono sempre a ruota della lettura. Se la precedono, non
sono che scuse per ottenere dalla lettura qualcosa di diverso da quanto
la lettura propone.
Gianni Gastaldon
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